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http://www.dirittoestoria.it/3/Redazione/Mastino-CV-2004_file/image004.jpgScritto sulle epigrafi: premessa per una ricerca su malattie, cause di morte e medici in età imperiale romana

 

ATTILIO MASTINO

Università di Sassari

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[Lecture presentata nel Convegno Condizioni di vita, alimentazione, salute e malatie degli uomini del passato. L’approccio bioarcheologico tra storia, paleopatologia, antropologia fisica e scienze mediche” (Sassari, Aula Magna dell’Università, 11 ottobre 2014), in occasione dell’inaugurazione del “Centro Studi antropologici, paleopatologici, storici dei popoli della Sardegna e del Mediterraneo” dell’Università di Sassari]

 

 

SOMMARIO: Introduzione. – 1. L’agonia. – 2. La traslatio cadaveris. – 3. Le malattie e la loro eziologia. – 4. Malattie: la malaria. – 5. Le malattie provocate da una maledizione. – 6. Povertà e malattia. – 7. Strutture di assistenza. – 8. I medici. – 9. La profilassi. – 10. I Carmina epigrafici. – 11. Le acque termali. – 12. I medici in età paleocristiana. – 13. Cachet di oculisti, colliri, pomate, balsami, e altri prodotti curativi. – 14. La bioetica. – 15. Medicina, religione e magia. – 16 Le cause di morte nelle iscrizioni. – 17. Il parto. – 18. Iconografia. – 19. Prospettive della ricerca.

 

 

Introduzione

 

Il tema che propongo oggi in occasione della nascita del Centro studi antropologici, paleo patologici, storici dei popoli della Sardegna e del Mediterraneo è davvero inusuale: riservandomi un approfondimento nel testo definitivo, vorrei tentare di leggere in estrema sintesi le scritture antiche, di ricostruire le parole incise sulla pietra, partendo da quelle epigrafi che ci conservano in particolare una serie di notizie, spesso frammentarie, sulle malattie, sulle cause di morte e sui medici in età imperiale romana. Il testo non pretende di esaurire una documentazione ampia, complessa e fin qui poco studiata, ma si propone di fornire solo alcuni esempi particolarmente significativi.

Il tema può essere solo accennato nelle sue linee essenziali, per indicare piste di ricerca che riescano a partire dalle caratteristiche dell’epigrafia sacra e funeraria nel mondo antico. A differenza delle iscrizioni funerarie moderne, gli epitafi latini conservano le più svariate informazioni sulla vita e sulla morte dei defunti, sulla salute, sulle malattie, sulle cause del decesso, sul dolore dei parenti sopravvissuti, sulla durata della vita, sull’agonia, come ad Olbia per l’epitafio cristiano di Valeria Nispenini di dolcissima memoria, ricordata dal marito Pribatio e dal figlio Balentinus, morta a 55 anni nel corso del IV secolo, compianta anche per le sofferenze di una morte che è arrivata implacabile dopo 13 lunghi giorni di agonia, doluit dies XIII. Così a Roma Probina, vissuta 17 anni, 100 soli giorni con il marito, ammalata per 45 giorni, aegrotavit dies XXXXV prima di riposare in pace (ICUR I 3903 = CLE 1339 = ILCV 3330).

 

 

1. – L’agonia

 

Il tema della terribile durata dell’agonia dei moribondi, particolarmente rilevante in Sardegna, è stato studiato recentemente anche con riguardo alle competenze del dio Viduus, venerato ai margini del municipio di Karales. In passato Paola Ruggeri ha affrontato l'iscrizione di Sanluri che nomina una divinità poco nota, legata al rapporto coi morti e richiamata da Varrone a proposito delle arcaiche formule degli Indigitamenta. Si tratta di Viduus, al quale un liberto del municipio di Cagliari, C. Iulius Felicio si rivolge grato, ponendo una dedica in occasione dell'ampliamento dell'area sacra del dio (CIL X 7844). Siamo di fronte a un unicum epigrafico, che documenta nell'isola il culto riservato a un dio il cui compito, in base a quanto scrivono Varrone, Tertulliano e Cipriano, era quello di presiedere al distacco dell'anima dal corpo, cioè al momento terminale (nel senso di terminus latino) che segna la frontiera tra la vita e la morte, rendendo più breve e meno dolorosa l'agonia del malato: per Tertulliano Viduus è il dio qui anima corpore viduet, quem intra muros cludi non permittendo damnastis. Dunque un dio che, per quanto Cipiriano considerasse feralis et funebris, era benefico e salutare, sentito come amico dei moribondi, anche se il suo culto non poteva esser praticato se non all’esterno, addirittura ai margini della città, comunque extra muros. Emergono da queste poche righe del nostro testo aspetti misteriosi di tradizioni religiose e competenze che in Sardegna sono documentate dall’inizio dell’età imperiale ma che si estendono nel tempo fino all’età medioevale. Al momento del passaggio del paganesimo al cristianesimo, religione e magia si fondono, come nella vicenda del governatore della Sardegna sotto Valentiniano e Valente nel IV secolo d.C., Flavio Massimino, e del suo amico sardo, capace di evocare le anime dei morti e trarre presagi dagli spiriti: per Ammiano hominem Sardum … eliciendi animulas noxias et praesagia sollicitare larvarum perquam gnarum (Mastino, Pinna 2006). Del resto il tema della durata dell'agonia in Sardegna è in qualche modo riassunto dalla vicenda che Polibio attribuisce a Timeo sull'uccisione dei vecchi settantenni nel corso del III secolo a.C. in età cartaginese e che prosegue sul piano strettamente etnografico già giù fino a Sas Accabadoras della leggenda sarda fino al pieno Ottocento.

L’attenzione per il momento in cui l’anima ritorna alla quiete del sepolcro è ben documentata in Sardegna e nell’impero romano: si ricordi la Securitas, il desiderio di proteggere le ossa dopo la cremazione, che ritorna a Karales nell’ipogeo dei Vinii, nella necropoli di Tuvixeddu collocata fuori le mura. Con l’avvento del cristianesimo, conosciamo le maledizioni che colpiscono i violatori della tomba (la sorte di Giuda traditore, la lebra di Giezi servo del profeta Eliseo ecc.): il corpo deve riposare nella tomba, protetto dalla croce, che a Trapani è definita speranza dei Cristiani, rovina del Diavolo, resurrezione dei Cristiani, cacciata dei demoni, arma invincibile, vita per quelli che credono, invece morte per quelli che non credono. E ciò fino al momento in cui il corpo si riunirà con l’anima nel giorno del giudizio universale, nel dies tremendus iudicii, nel dies ultimus, nel dies novissimus, quando sarà possibile che grazie alla potenza di Cristo la carne riesca vivere di nuovo e il defunto possa godere la gioia dell’ultima luce: Christi ope rursus sua vivere carne et gaudia lucis nobae ipso dominante videre (nell’iscrizione del diacono Silbius a Olmedo, CIL X 7972).

Sullo sfondo rimangono le specifiche caratteristiche della medicina in età antica, spesso confusa con i culti religiosi salutari, il culto di Esculapio-Asclepio, in Sardegna Merre; il culto del Sardus Pater; il culto delle Ninfe salutari come a Forum Traiani oppure di Hygia. Sempre a contatto con la magia, in rapporto a invincibili maledizioni come sulle defixiones o a competenze tradizionali, spesso solo immaginate ed improbabili. I medici appartenevano ad uno strato sociale basso ed erano il più delle volte considerati i colpevoli finali della scomparsa del paziente. In altri casi, come per Antonio Musa, il medico di Augusto, i medici erano apprezzati e ricompensati: per Musa fu espressa la generale gratitudine della repubblica per aver salvato il principe da una pericolosa malattia, collocando una statua presso quella di Esculapio: statuam aere conlato iuxta signum Aesculapii statuerunt. Allo stesso modo il militare M. Ulpius Honoratus riconosce onestamente il successo dell’opera di L. Iulius Helicus, medicus, qui curam mei diligenter egit secundum deos, e scioglie un voto a Esculapio e Hygia a Roma, ILS 2194. Ancora a Roma al Testaccio sappiamo che fu un collegium salutar(iorum) a costruire un tempio Aesculapio et Saluti Aug(ustae), ILS 3840. Ma dove i medici erano impotenti, assenti o incapaci, interviene la Bona Dea che riusciva a far guarire il paziente disperato, come a Roma per il servo pubblico Felice, conduttore di asini per conto del collegio de pontefici, che aveva sciolto il voto Bonae deae agresti .. ob luminibus restitutis, derelictus a medicis, post menses decem beneficio domiaes medicinis sanatus per eam (ILS 3513). Del resto gli stessi medici riconoscono i benefici della pratica religiosa, come i medici torinesi costituiti nel collegio intestato ad Esculapio e Hygia, subito dopo la morte del divo Traiano (ILS 3855 a).

 

 

2. – La traslatio cadaveris

 

Sappiamo di morti improvvise avvenute lontano dalla propria patria, che imponevano la translatio cadaveris, un tema che ha molti riflessi, in rapporto al rituale funerario, inumazione o incinerazione. Si pensi alle tombe mausoleo o ai cenotafi, come quello del marinaio Fintone morto in marre ma ricordato con un cenotafio sulla spiaggia di Caprera, ricordato dal poeta Leonida di Taranto. Un’epigrafe trovata presso i resti della Colonia Aurelia Augusta Pia Canosa e presentata nel 1966 da Erminio Paoletta scritta in lingua greca recita: «Mia patria Mira, e traggo i natali dalla Licia. Essendo mercante d'arte, venni a causa della morte dell'infelice fratello Zosimo, che qui posi a ricordo per i mortali; non così infatti crebbe Nireo (il più bello dei Greci a Troia) nella bella Smirne, non i Dioscuri, i figli di Leda presso la vorticosa corrente dell'Europa. Pose Ametisto, fratello di Zosimo». Ametisto accorre a Canosa per rendere le estreme onoranze al fratello Zosimo, scomparso lontano da Mira in Licia: anch'egli forse era stato un mercante d'arte nella Canosa del II secolo d.C.

Il tema è quello della morte improvvisa e della sepoltura lontano dalla patria: il v(ir) s(pectabilis) Pascalis, onorato dalla comunità cittadina della colonia di Turrris Libisonis per i suoi meriti, è definitivamente sepolto in terra straniera, dunque nell’isola lontana da Roma, tra persone sconosciute: hic iace[t] peregrina morte raptus (AE 2002, 634 a). Diversamente il corpo del messo pontificio Annius Innocentius morto in Sardegna fu traslato a Roma: si trattava di un attivissimo acol(uthus), che ob eclesiasticam dispositionem itinerib(us) saepe laborabit. Inviato per due volte alla corte di Costantinopoli, ma anche in Campania, Calabria ed Apulia, infine morì in Sardegna; le sue ossa furono traslate alla metà del IV secolo a Roma, nel cimitero di Callisto: postremo missus in Sardiniam, ibi exit de saeculo; corpus eius huc usq(ue) est adlatum (ICUR IV, 11805). Analogo trasferimento ebbero le ossa di Papa Ponziano dalla Sardegna a Roma (nelle catacombe di Callisto), riportate in pompa magna dal clero romano e da Papa Fabiano durante il regno di Gordiano III.

In epoca pagana, la traslazione doveva essere autorizzata dai pontifices, dall’imperatore, da un governatore. E’ il caso delle ossa del liberto imperiale M. Ulpius Phaedimo, morto a Selinunte il 12 agosto 117, il cui corpo fu trasferito a Roma nel 130: reliquiae traiectae eius ex permissu collegii pontific(um) piaculo facto (ILS 1792). Allo stesso modo le spoglie del liberto imperiale M. Ulpius Hermia furono trasferite a Roma dalla Dacia: cuius reliquiae ex indulgentia Aug(usti) n(ostri) Romam (ex Dacia) latae sunt (ILS 1593). Il corpo del diciottenne cavaliere L. Vetidius Maternus Vetidianus fu traslato da Cartagine a Roma grazie all’autorizzazione del governatore : permissu praesidis a Khartagine de studio relatis reliquis (ILS 7742 a). Le ossa di Herennia Lampas, concubina di Herennius Postumus, furono portate a Tivoli dalla Sardegna nel corso del II secolo, cuius ossa translata ex Sardinia (CIL XIV 3777: un percorso che è documentato dalle epigrafi di Herennia M. f. Helvidia Aemiliana, regina (patrona) del cavaliere Ti. Claudius Liberalis Aebutianus, tra Elmas in Sardegna (EE VIII 718) e Tivoli presso il tempio di Ercole Vittore (CIL XIV 4239).

 

 

3. – Le malattie e la loro eziologia

 

Altre malattie ci sono note dal racconto fatto sull’epitafio dal defunto in prima persona: così ad Iulium Carnicum per Laet[i]lius C(ai) [f(ilius) G]a[ll]us, che ricorda le febbri altissime provocate da un’infezione: regrediens incidi febribus acris at pres[s]us graviter [a]misi cu[m] flore i[u]vent[a]m (CIL V 8652 (p 1095) = CLE 00629). A Tarragona il giovane auriga Eutyches muore a 22 anni ancora a causa di una febbre violenta contro la quale i medici sono apparsi impotenti: ussere ardentes intus mea viscera morbi, vincere quos medicae non potuere manus (CIL II 4314 (p 973) = CLE 1279 = ILS 5299 = AE 1972, 283). In altri casi a raccontare la morte della persona cara è un parente che è sopravvissuto, come a Roma per Ephesia Rufria, ma[ter et coniux bona], qua[e mala periit febri] quam medici praeter e[xspectatum adduxerant] solamen (CIL VI, 25580 (p 3532) = CLE 00094).

Ad Auzia in Mauretania Cesariense i genitori piangono i due bambini Clemens e Vincentia strappati alla vita da una malattia contagiosa nel fiore degli anni. Il termine pestis difficilmente allude a una vera epidemia: pestis acerba abstulit hos pueros (CIL VIII 9048 = CLE 1610). Allo stesso modo un trentenne a Cartagine è stato strappato da una pestilenza: eripuit pestis (CIL VIII, 25008 = ILTun 1002). Così ad Ostia l’accusa di chi sopravvive è nei confronti della pestis dira (CIL XIV 632 [p. 482] = CLE 845).

Frequente anche il termine lues, da tradurre lue, peste, contagio, epidemia, più genericamente flagello o calamità, come a Bedaium nel Norico, con un epitafio che ricorda Iulius Victor e altri cinque defunti, qui per luem vitam functi sunt, scomparsi tutti assieme nell’anno 184 d.C., Mamertino et Rufo co(n)s(ulibus) (CIL III 5567 (p. 2328, 201) = AE 2008, 1018). Altre volte il patrono esprime il compianto per l’infelice dolcissima alumna, come a Parma per Xanthippe sive Iaia, che l’infuocata malattia ha reso febbricitante: lues ignita torret (CIL XI 1118 (p. 1251) = CLE 98).

Incerta è la natura del morbo che ha colpito M. Cornelius Optatus ad Anticaria in Betica, ancipiti morbo recreatus votum a(nimo) s(olvit) (CIL II 746 = 2036).

A Cordova il centurione T(itus) Acclenus T(iti) f(ilius) Qui(rina) e sua moglie morbo excruciati morte obierunt (CIL II 287 = 2215 [p. 886] = ILS 8477 = AE 2002, 167). A Cirta i mala fata hanno strappato al marito l’amata Ca[eli]a C(ai) Audasi fil(ia) R[ufa], [infesto mod]o quam dolu[i morbo es]se per[emptam] (CIL VIII 7255 = 19454 = ILAlg. II,1 830 = CLE 560). A Melta in Moesia inferior la defunta maledice i saeva e impia fata, ricordando il crudelis thalamos post mor[bi accessum] (ILBulg 248 = AE 2009, 1201).

Cristiano è il carmen urbano per Alexander, tormentato da gravi malattie ora rinato in Cristo con l’aiuto del martire: [gravibus m]orbis iactatus tempore [longo] redd[i]tus est v[itae mar]tyris auxil[io] (ICUR- IX 24312 = ILCV 1990).

 

 

4. – Malattie: la malaria

 

Non raramente le iscrizioni citano le malattie che hanno portato alla morte, prima tra tutte in Sardegna la malaria, attestata nelle fonti già da epoca repubblicana. In questa sede baserà ricordare il Bellum Sardum combattuto da Ampsicora contro i Romani dopo la battaglia di Canne: Tito Livio ricorda che una ambasceria dei principes sardi, dunque espressione sicuramente delle principali città sardo-puniche (escluse le antiche colonie fenicie, forse parzialmente rimaste fedeli ai Romani) e di alcuni popoli della Sardegna interna, si recò a Cartagine, chiedendo un appoggio militare alla rivolta che serpeggiava ovunque nell’isola, dove i Romani avevano poche truppe (una legione) e dove il governatore Q. Mucio Scevola si era ammalato alla fine della primavera ed era invalido, apparentemente a causa della malaria: Livio ci propone un sintetico quadro clinico, un morbo lungo e noioso ma non pericoloso (non tam in periculosum quam lagum morbum implicitum), specificandone l’eziologia (gravitate caeli aquarumque advenientem exceptum). Chi aveva preso l’iniziativa della triplice alleanza tra Sardi Pelliti, Sardi delle città costiere attorno a Cornus e Cartaginesi era stato proprio Hampsicora, battuto nel 215 a.C. da Tito Manlio Torquato, chiamato come privato cittadino a sostituire il pretore ammalato come privatus cum imperio.

Quattro secoli dopo, propter adversam corporis valitudinem forse per il ripetersi di febbri malariche, l'imperatore Filippo l'Arabo scioglie dal giuramento e dal servizio militare nell'anno 246 il giovane M(arcus) Aurelius Mucianus originario della Moesia inferiore, vigile a Roma della Coh(ors) II vig(ilum) Philippiana che aveva svolto un servizio militare in Sardegna: un nuovo diploma recentemente acquistato dal Museo di Mainz contiene durante l'età di Filippo l'Arabo un riferimento alla Sardinia, nell'ambito di una serie di missioni speciali fuori dalla capitale, probabilmente in compagnia di altri colleghi. Le date di soggiorno in Sardegna (28 maggio-15 agosto 245) rimandano ad un particolare periodo dell'anno, che sembra coincidere con la mietitura e la raccolta di frumento da spedire da Olbia verso Pisa (ulteriore destinazione di Muciano l'anno successivo), proprio nella stagione in cui nella grande isola mediterranea la malaria colpiva gli stranieri, in un modo però forse meno aggressivo di quando non si introdurrà in età medioevale il temibile Plasmodium falciparum. Ci sono del resto molti elementi per interrogarsi sui misteriosi contenuti degli incarichi affidati a Muciano nel corso della sua breve e sfortunata carriera, che a causa della malattia si conclude con il grado di soldato semplice proprio come era iniziata: quest'unica attestazione della presenza di un vigile e di un rappresentante della guarnigione urbana nell'isola può forse aver avuto più di una ragione.

 

 

5. – Le malattie provocate da una maledizione

 

Le malattie che colpiscono i pazienti sono citate nelle iscrizioni per ragioni diverse e spesso vengono spiegate di malati o dai parenti del defunto con l’invidia, la maledizione, il malocchio di persone ostili, nemici personali o avversari. Un capitolo complesso e di difficile comprensione è rappresentato dalle tabellae defixionum, che in questa sede richiamerei solo cursivamentemente, come quando si augura un nemico nel nome di Proserpina e Plutone la febris quartana tertiana cottidiana a Roma (CIL I 2520, p. 967). Oppure anche (sulla Via Appia): patiatur febris, frigus tortionis palloris sudores obbripilationis meridianas interdianas serotinas nocturnas (CIL VI 33899 = AE 2004, 201).

Alla stessa categoria sembra appartenere lo pseudo-epitafio dedicato a Carmona in Betica in vita Dis M(anibus) feris, invocati perché colpiscano violentemente una Luxsia figlia di Antestius: caput cor co(n)s[i]li<u>(m) valetudine(m) vita(m) membra omnia accedat morb<u>(s) cotid(i)e (AE 2010, 108).

Ad Augusta Treverorum il defiggente invoca l’intervento della dea, la domina Iside, per provocare un profluvium, probabilmente una emorragia o una dissenteria, a danno di un odiato liberto, un Tib. Claudius Germanus, della nazione dei Treviri: profluvium mittas et quidquid in bonis habet in morbum megarum, espressione intesa ora da Daniela Urbanova nel senso di un augurio inquietante: «tutto ciò che ha di sano venga colpito da una malattia inguaribile», senza escludere una diretta allusione all’epilessia (Kropp-2008, 4,1,3/16). Il dio al quale si chiede la malattia o la morte verrà premiato con un sacrificio, come a Treviri per Hostilla, quae mihi fraudem fecit, se verrà tormentata a morte (si tu consumpseris) (CIL XIII 11340, V2 = Kropp-2008). Allo stesso modo il lato B della celebre tavoletta urbana con la defixio contro Plotio è stato interpretato recentemente dalla Urbanova «che [Plotio] muoia male, perisca male e crepi. Lo passi, lo consegni, affinché non possa vedere, scorgere, guardare la luce del mondo – cioè affinché non possa vivere» (CIL I,2 2520). A Bath in Britannia nel IV secolo ci è conservata una “preghiera di giustizia” contro un ladro, …ut mentes suas perda(at) et oculos suos in fano ubi destinat (Tomlin 1988), da tradurre. «che il ladro perda la ragione e la vista nel tempio dove risiede la dea». L’augurio più frequente che si rivolge ai defissi è quello di perdere le mani, i piedi, tutte le membra, la vista.

Particolamente elaborata la defixio urbana che invoca Dite, Proserpina, il cane infernale tricipite, le larve, le furie, altri dei inferi, perché la vendetta riguardi tutte le membra della nemica Caecilia Prima: Orcini tricipites vos exedit[is] iocinera pulmones cor cum venis viscera membra medullas eius diripiatis dilaceretis lumina eius . … peruratis lumina stomachum cor eius pulmones adipes cetera membra omnia illius, peruratis; ossum frangant medullas exedint iocinera pulmones dirimant vosque Ossufragae inferae tradatis illam; … eripias somnum , soporem obicias illae amentiam dolares stupores malam frontem usque donec pereat intereat extabescat (AE 2010, 109). Con la conclusione già citata: febres cotidianas tertianas quatarnas usque dum animam eius Caeciliae Primae eripiatis.

A Pompei c’è ripetuta la preghiera: Or(o) te aegrotes (CIL IV 2960), oppure Aegrota / Aegrota / Aegrota (CIL IV 4507). Numerose altre defixiones augurano che il corpo dell’avversario possa decomporsi presto: N(umerius) Vei Bareca tabescas a Pompei in età repubblicana (CIL IV 75 = CIL I 1644c = ILLRP 1141); Quis (h){e}ic [ulla(?)s]cr[ipser]it [t]abe[scat] n[eque] nominetur (CIL IV 7521); oppure a Capua: Cn(aeum) Numidium Astragalum v(oveo?) il(l)ius(?) vita(m) valetudin(em) qua<e>stum ipsu(m)q(ue) uti tabescat morbu [ac(?)] C(aius) Sextiu(s) tabe/[scat] ma(n)do rogo (CIL X 3824). Passano i secoli e l’uso si mantiene anche tra i cristiani: Agnella teneatur ardeat de{s}tabescat usque ad infernum semper (AE 1941, 138, Roma). In Corsica a Mariana ci si augura la vendetta contro C. Statius, ut male contabescat usque dum morie[t]ur (AE 1982, 448).

L’óstrakon di Neapolis in Sardegna (un frammento di parete d’anfora), probabilmente del III secolo d.C., contiene una formula magica, su un testo di quattro linee, in cui l’estensore chiede a una divinità, Marsuas, che Decimo Ostilio Donato diventi misero, muto e sordo: «O Marsuas di Neapolis, rendi misero, muto e sordo Decimo Ostilio Donato, per quanto tu possa rispondere all’uomo» (AE 2007, 690).

Bisogna infine tener presente le tante iscrizioni che attribuiscono una morte improvvisa alla malvagità di un mago: eripuit me saga manus crudelis ubique, cum manet in terris et nocit arte sua (a Verona, ILS 8522). Sceleratissimi servi infando latrocinio nomina ordinis decurioum defixa monumentis (ILS 3001).

 

 

6. – Povertà e malattia

 

Il tema del rapporto tra povertà e malattia viene tracciato nel recente volume, che ho presentato a Palermo a Villa Wittaker, Poveri ammalati e ammalati poveri, Dinamiche socio-economiche, trasformazioni culturali e misure assistenziali nell'Occidente romano in età tardoantica, a cura di Rosalia Marino, Concetta Molé, Antonino Pinzone, con la collaborazione di Margherita Cassia.

Sarebbe utile stabilire, almeno indicativamente, se nell'immaginario collettivo degli antichi la povertà sia collegata con la malattia o alla rovescia con la salute. E' un fatto che i poveri erano più esposti a pestilenze, malaria, polmonite soprattutto se contratta da una donna in gravidanza, tubercolosi, tetano. Le cause principali spesso derivavano da topi, cani rabbiosi e altri animali che si aggiravano liberamente nelle città, per le strade e per le case, con tutto il bagaglio di infezioni che potevano portarsi appresso e trasmettere all'uomo (quali la leptospirosi e la salmonellosi), aggravate dal sovraffollamento e dalla mancanza di servizi igienici adeguati, l'utilizzo di latrine pubbliche e di acqua infetta. Le donne dei ceti superiori avevano invece a disposizione domus o ville luminose e arieggiate, oltre a schiavi e liberti che evitavano loro le più malsane incombenze.

Eppure il corpo del povero, ed è Valerio Neri (La rappresentazione del corpo del povero fra salute e malattia) a spiegarcelo, assurge ad emblema di salute, secondo un filone della letteratura filosofica, etica e medica che percorre la cultura antica (da Antistene e Socrate) sino ad arrivare alla tarda antichità e ai Padri della chiesa, in quanto il povero conduce un vita secondo natura (katà phusin); del resto in Occidente Agostino descrive la salute come patrimonium pauperis. La salute del povero è frutto della sobrietà nel regime alimentare ed è corroborata dall'attività fisica. Al povero sano viene contrapposta la rappresentazione del ricco, crapulone e lussurioso che spesso contrae malattie come la podagra, dovute alla sua avidità alimentare.

La rappresentazione del povero malato, così come si ritrova sistematizzata negli scritti dei Padri della Chiesa, gli conferisce una sorta di status privilegiato sotto il profilo etico: in particolare è ritenuto esemplare il pauper verecundus, caduto in miseria rispetto ad una pregressa condizione sociale elevata. Riprovazione sociale si riversa al contrario sul mendicus, valido fisicamente, che non si impegna in alcuna attività e preferisce raccogliere in giro le oblazioni. Per Salviano di Marsiglia il termine mendicus conserva una simbologia negativa secondo l'accezione pagana e viene utilizzato ad indicare l'individuo privo di qualunque capacità di riscattarsi a livello economico e di incidere nel contesto sociale. Si tratterebbe dell'articolazione più bassa all'interno della paupertas, se il mendicus aveva veramente un ruolo addirittura inferiore a quello del pauper e dell’egens.

Osserviamo l'affermarsi a livello epigrafico del parallelismo lessicale tra pauperes e peregrini: per la Sardegna ancora nella prima metà del IV secolo attestato piuttosto il parallelismo peregrini-inopes, come si ricava dall'iscrizione di Matera, auxilium peregrinorum saepe quem censuit vulnus; e poco oltre: quem matrum aut inopum decernerat ipse parentem, proveniente dalla Basilica di San Gavino a Porto Torres (AE 2002, 632 = 2003, 689). A Tharros pauperum mandatis serviens è Karissimus di AE 1982, 430. Ancora a Porto Torres Flavia Cyriace rem suam [pauperibus] / linquit (AE 1994, 796).

 

 

7. – Strutture di assistenza

 

Le iscrizioni documentano come il cristianesimo e le istituzioni ecclesiastiche seppero creare una formidabile rete di assistenza per il soccorso e la cura dei poveri ammalati. Sul modello dell'Oriente anche l'Occidente latino fu in grado di sviluppare strutture per l'accoglienza e il ricovero dei poveri che si trasformarono in ospedali per ammalati. Arnaldo Marcone e Isabella Andorlini (Salute, malattia e prassi ospedaliera nell'Egitto tardoantico) ricostruiscono analiticamente il quadro in cui si articolavano le diverse strutture ospedaliere nell'Egitto tardo-antico: dai nosokomeia (ospedali), agli xenodocheia (luoghi di accoglienza) sino ai lochomeia (residenze per donne/maternità o ad esempio i lebbrosari (kelyphokomeia). Il lessico per designare i luoghi di cura dell'Oriente greco fu importato con una certa semplificazione in Occidente: qui fu xenodocheion il termine generalmente usato per designare la struttura ospedaliera. Andrebbero riesaminati in questo senso il lessico epigrafico e i formulari cristiani nei quali spesso ci si imbatte in espressioni, talvolta superficialmente ritenute convenzionali e retoriche, come inopum refugium, peregrinorum auxilium oppure fautor che potrebbero piuttosto far riferimento alla presenza di xenodocheia. in Sardegna, a Olbia, a Tharros e a Turris Libisonis. L'espressione auxilium peregrinorum ricorre più volte in Sardegna in iscrizioni del IV e V secolo che contengono concetti riferiti alla classe sociale dei ricchi possessores; esse sembrano conservare a giudizio di Letizia Pani Ermini un emblematico elemento di continuità l'immagine del ricco proprietario, uomo di grande integrità morale, padre degli orfani, rifugio dei poveri, aiuto dei pellegrini: ad Olbia il cristiano Secundus, è esaltato come magnae integritatis vir bonus, pater orfanorum, inopum refugium, peregrinorum fautor, religiosissimus adque exercitatissimus totius sinceritatis disciplin(ae) (CIL X 7995); a Tharros si ricorda in un'epoca che per il De Rossi il IV secolo, ma che per il Duval appena più tarda, Karissimus, amicorum omnium pr(a)estator bonus, pauperum mandatis serviens (AE 1982, 430). A Turris Libisonis Matera è esaltata dal vulgus di fine IV secolo come auxilium peregrtinorum (AE 2002, 632 = 2003, 689, vd. AE 1994, 796). Del resto dall'epistolario di Gregorio Magno sappiamo che proprio a Turris Libisonis il vescovo Mariniano, arrivando fino all'esarca d'Africa, aveva dovuto difendere contro il dux Theodorus i poveri della sua Chiesa, in tutti i modi vessati e afflitti da svariate usure: civitatis suae pauperes omnino vexari et commodalibus affligi dispendiis.

 

 

8. – I medici

 

Il naturale contraltare della figura del povero ammalato è rappresentato dalla figura del medico e si può tentare di analizzare la relazione interna al triangolo ippocratico, medico-malato-malattia, ossia il nesso inscindibile tra paziente, medico curante e l'interazione tra questi due soggetti che incide sul decorso della malattia e sugli effetti della terapia. Sottesa costantemente a questa problematica la dicotomia tra la fides e l’avaritia del medicus che viene alternativamente considerato disinteressato e amico oppure avido, incompetente e preoccupato solo dal tornaconto economico.

Tutto ciò in una prospettiva diacronica che prende le mosse dall'evergetismo di stampo ellenistico di Cesare e Augusto e a cui fa da sfondo la differente sensibilità culturale al giuramento ippocratico e al suo valore etico da parte del medico, delle istituzioni imperiali e delle istituzioni ecclesiastiche. Come non pensare del resto ancor oggi all'universalità del modello ippocratico che si traduce nelle società occidentali odierne nello scontro tra il diritto alla cura di alto livello per tutti nelle forme principalmente della sanità pubblica e il privilegio della cura specialistica per i pochi che ne hanno la possibilità?

Le iscrizioni cristiane esaltano quei medici che hanno dato gratuitamente la propria opera per assistere i pazienti, come il diacono (levita) Dionysius, artis honestae functus et officio quod medicina dedit, huius docta manus famae dulcedine capta dispexit pretii sordida lucra sequi saepe salutis opus pietatis munere iuvit dum refovet tenues dextera larga viros  obtulit aegrotis venientibus omnia gratis (ICUR VII 18661 = CLE 1414 = ILCV 1233).

Numerosi sono i medici citati nelle iscrizioni, come a Lione il medico cristiano Felice, che sconsolato si accusa della colpa di non esser riuscito a trovare una cura per la propria malattia, lui che si era tanto impegnato per alleviare il dolore di tanti malati: vita dicata mihi hic ars medicina fuit, aegros multorum potui relevare dolores, morbum non potui vincere ab arte meum (CIL XIII 2414 = ILCV 612).

I medici possono essere schiavi, come Agathopus medic(us) servus (ILS 1514), liberti (come C. Hostius C.l. Pamphilus medicus che conosciamo per aver comprato una tomba per se, la moglie, i liberti, i posteri: haec est domus aeterna, hic est fundus, heis sunt horti, hoc est monumentum nostrum, ILS 8341; oppure come Q. Caecilius Caeciliae Crassi l. Hilarus medicus, ILS 9433), liberti imperiali (T. Aelius Aminias, Aug. lib., medicus auricularius, ILS 7810). Sono tutti esempi urbani. Conosciamo odontoiatri (auricularii), oculisti (M. Fulvius Icarus Pontuficiensis medicus ocularius, ILS 7808 Aguilar de la Frontera; M. Latinus M. l. medicus ocularius ILS 7807, Bologna; M. Geminius M.l. Felix medicus ocularius a compitu aliario, ILS 7809, in quartiere di Roma), chirurghi (Celadus Anton(i) Drusi medicus chirurgus dedica la tomba alla conserva, ILS 7811). Alcuni con più di una specializzazione, come ad Assisi P. Decimius P. l. Eros Merula medicus clinicus chirurgus ocularius (ILS 7812). Tutti erano assistiti da scribae incaricati di scrivere le ricette (a Roma T. Aurelius Telesphorus di ILS 7817). Alcuni stipendiati da municipi e colonie, come nel caso di Viterbo dove conosciamo un M. Ulpius, medicus salariarius civitatis splendidissimae Ferentiensium, ILS 2542.

Infine i medici militari, come tra i pretoriani a Roma Ti. Claudius Iulianus medicus clinicus cohortis IIII praerotiae (ILS 2093) oppure Sex. Titius Alexander medicus cohortis V praetoriae che dedica un’ara Asclepio et Saluti commilitonum (ILS 2092). Oppure al servizio di una legione, di un’ala oppure di una coorte ausiliaria (ILS 2542).

Tutti possedevano un armamentario di ferri chirurgici e libri, come quelli rappresentati per definire la professione sulla stele funeraria di P. Aelius Pius Curtianus medicus amicus benemeritus a Preneste (ILS 7788).

I medici partecipano a iniziative evergetiche a favore della comunità: così ad Ostia D. Caecilius D(eciorum duorum) l(ibertus) Nicia medicus assieme ad altri mag(istri) Vici è impegnato a ricostruire un compitum, una cappella collocata in un crocicchio, a sue spese realizza il muro a secco e una delle colonne, maceriem et columnam (ILS 5395). Spesso sono riuniti in collegia come a Benevento (ILS 6507), scholae medicorum con propri edifici (ILS 5481 a Roma), soli o con altri specialisti (così ad Aventicum conosciamo un collegio di medici et professores, ILS 7786); ancora a Roma un collegium salutar(iorum) (ILS 3840).

Non mancano i medici veterinari, come ad es. L. Crassicius, Gaiae libertus Herma, medicus veterinarius nelle Venezie (ILS 7815), oppure il C. Marius di un’epigrafe urbana, medicus equarius et venator (ILS 7813); ancora un Ap. Quintius Ap. l. Nicephor(us) medicus iumentarius nell’agro pontino (ILS 7483), oppure il Secundinus mulomedicus, che ha costruito la propria domus aeterna sulla via Appia (ILS 7814).

 

 

9. – La profilassi

 

La documentazione epigrafica relativa alla professione medica è abbondante ed è stata studiata da Bernard Remy, che conosce per la sola Gallia almeno 24 casi, compresa a Lione una medica donna (CIL XIII 2019). Un caso analogo di donna medico è noto a Emerita in Lusitania (CIL II 497). A Costantinopoli troviamo l'equivalente in greco di iatrìne. Ci sono medici pubblici, pagati dalla città, come quello di Cordova, un medicus c(olonorum) c(oloniae) P(atriciae) .

In generale la menzione dei medici è collegata ai vota per la salute di un paziente. In Lucania, tra Atina e Volcei, conosciamo uno schiavo originario di Tralles in Caria, medico personale di Quintus Manneius, originario di Volcei, che rendendogli la libertà gli attribuisce il nome di L. Manneius Quinti medicus, nel senso di Quinti libertus; a ricordare il medico è la compagna Maxsuma Sadria. La particolarità è rappresentata dal fatto che si tratta di un fusikòs oinodotes, di un medico che curava le malattie semplicemente con il vino. L'iscrizione è in latino ma la professione di medico enologo è in greco (CIL X 388 = ILS 7791). Plinio il vecchio ricorda che la terapia che si realizza attraverso il vino era stata suggerita da Asclepiade di Prusa, che l'aveva esercitata all'inizio del I secolo a.C. e che era considerato come il fondatore di una nuova scuola, alla quale apparteneva certamente il nostro medico alla fine dello stesso secolo (vedi Plinio 7, 37, 124).

 

 

10. – I Carmina epigrafici

 

Irma Bitto (Medici, malattie e cause di morte nei CLE bcheleriani) ha recentemente studiato gli epitafi metrici dei Carmina Latina Epigraphica che, affiancati alle testimonianze letterarie, forniscono uno strumento per ricostruire un quadro coerente dello sviluppo della pratica medica in epoca altoimperiale e cristiana. Alcuni Carmina funerari risultano destinati esplicitamente ai medici, spesso ricordati con espressioni elogiative, altri ai pazienti sottoposti, a volte con poco successo, alle loro cure, i cui parenti, dedicatari degli epitafi, denunciano casi di vera e propria malasanità. Per il periodo imperiale a cui si fa riferimento, la condizione sociale dei medici era prevalentemente servile o libertina (come si trae dall'onomastica grecanica e più in generale orientale), e tali figure professionali spesso specializzate (ad es. ocularii, auricolarii, chirurghi) venivano impiegate come medici pubblici nei vari corpi militari, anche presso la flotta, nelle comunità cittadine, al sevizio della collettività delle scuole di gladiatori, delle fazioni del circo, oltre che medici operanti a vario titolo presso le domus private, o presso i personaggi della domus imperale. Il generale clima di restaurazione postaugusteo, se si esclude la parentesi neroniana, credo abbia innestato una polemica a livello politico ed intellettuale basata sull'esigenza di trovare una sintesi autonoma, di tipo tradizionale, rispetto al modus operandi del medico legato al contesto greco-orientale, di cui si sottolinea l'avidità ed ecco a questo proposito la stigmatizzazione di Plinio sui Graeci medici e le disposizioni di Domiziano in calce all'editto di Vespasiano, esposto a Pergamo, copia di quello pubblicato nel tempio di Giove Capitolino, nelle quali si condanna l’avaritia medicum et praeceptorum e si commina come pena la perdita dell’immunitas. Del resto occorre prendere atto che l'apporto che definiamo riferibile alla grecità d'Occidente ha avuto tali rilevanza e ruolo nel lungo percorso di formazione di una tradizione più spiccatamente occidentale che non può essere negato, come ben ha sottolineato Antonino Pinzone a proposito della Sicilia, terra di tradizioni mediche antichissime, se è vero che uno dei primi indirizzi nella storia dell'arte medica fu proprio quello siciliano, che ebbe il suo fondatore in Empedocle di Agrigento, ricordato dalle fonti per il miracoloso risanamento igienico di Selinunte e Agrigento, messo in atto grazie alle sue conoscenze scientifiche; e in Acrone di Agrigento, Pausania di Gela e altri suoi continuatori (Malattia e rimedi nella Sicilia romana bizantina, tra certezze e dilemmi).

 

 

11. – Le acque termali

 

L'apporto della tradizione medica greco-orientale, incarnato nella prassi da medici provenienti da aree geografiche di impronta culturale greca, ionica e anatolica, viene ascritto in un certo senso da Margherita Cassia ad un macrocosmo culturale caratterizzato da un respiro internazionale, rispetto al quale in epoca tardo-antica, con l'affermarsi del cristianesimo si contrappone l'universo chiuso delle circoscrizioni ecclesiastiche, il localistico microcosmo delle anime purganti e dei poveri ammalati descritto negli edificanti racconti gregoriani (Saggezza straniera un medico orientale nell'Italia tardo-antica). Partendo dal caso del medico Diodotus, originario di Tyana in Cappadocia probabilmente uno iatraliptes, attivo sul finire del III secolo d.C. nell'area delle Aquae Ceretanae e del suo alumnus Charinus, noti da un'iscrizione rinvenuta nel 1981 in una località tra Tolfa e Cerveteri, Margherita Cassia sottolinea in generale la continuità d'uso delle acque termali in epoca cristiana e nello specifico delle Aquae Ceretanae, menzionate ancora nel V secolo da uno scrittore di medicina come Celio Aureliano. D'altro canto, in epoca cristiana, si avviarono delle profonde trasformazioni con l'introduzione di indicazioni di tipo morale e religioso che regolavano la frequentazione delle acque termali e si affiancarono, in alcuni casi, alle strutture termali, chiese extra-urbane e probabilmente strutture di accoglienza che comprendevano personale medico. Si verificò una trasformazione dell'orizzonte ideale, come viene testimoniato da Gregorio Magno con alcuni exempla edificanti: nel caso dell'area laziale gli antichi fruitori delle acque termali, i domini delle ville, inseriti in un contesto rinnovato dai valori cristiani, si trasformano in umili famuli, anonimi servitori addetti persino alle più basse mansioni, spiriti penitenti in veste di inservienti ad obsequium di presbiteri, vescovi e, più in generale, di tutti i frequentatori dei balnea, soprattutto dei poveri, anzi dei più poveri fra i poveri, cioè degli ammalati.

Del resto dalla Sardegna viene un esempio della riqualificazione in epoca cristiana di stazioni termali, legate al culto delle antiche divinità pagane, quello delle Aquae Ypsitanae (Forum Traiani, odierna Fordongianus), votate ad Esculapio e alle Ninfe salutari, sulla sponda sinistra del fiume Tirso, al confine con la Barbaria sarda. Un esempio emblematico del nuovo corso è offerto ancora una volta dal dio Esculapio, ringraziato da un Lucio Cornelio Sylla, a scioglimento di un voto, in un'iscrizione incisa su una piccola ara proveniente dalle antiche Aquae Ypsitanae (Fordongianus); da qui deriva il falso recentemente segnalato dal Nucleo tutela del patrimonio dell’Arma dei Carabinieri (ELSard. B 130). Nella dedica, che risalirebbe all'età sillana, il dio guaritore è ormai l'Aesculapius romano, non più assimilato ad Asclepio e ad Eshmun Merre. Nella storia del famoso complesso termale attivo già in età tardo repubblicana e dell'edificio di culto ad esso annesso, nell'area delle sorgenti di Caddas, sulla sponda sinistra del Tirso, può leggersi in filigrana il percorso di una progressiva appropriazione politico-culturale che attraversa anche il fenomeno religioso, esprimendosi pienamente nel corso dell'epoca imperiale: oltre alla dedica di età sillana, Aesculapius compare in associazione alle Nymphae Augustae in un'iscrizione di età imperiale (ILSard. I 186, vd 187; CIL X 7859-7860). La devozione nei confronti della divinità salutifera si radicò nella Sardegna romana tra il I ed il II secolo d.C. e ne abbiamo due attestazioni epigrafiche provenienti da Carales, la capitale della provincia, dove il culto di Esculapio pare essere collegato a quello imperiale. Entrambi i personaggi menzionati nelle due iscrizioni sono infatti sacerdoti di tale culto, l'uno con il ruolo di magister Augustalium (Lucius Iulius Mario) (CIL X 7552), l'altra come flaminica perpetua (CIL X 7604); vi è poi da aggiungere che il dio nella dedica effettuata dal magister porta l'appellativo di Augusto (Aesculapius Augustus).

A Fordongianus sono numerosi i casi di ex voto, uno dei quali ricorda il procurator metallorum et preaediorum ammalato documentato a Forum Traiani nell’età di Caracalla e Geta (AE 1998, 671). Su un modesto colle trachitico, presso il suburbio meridionale, una struttura ipogeica, sottostante la chiesa medioevale del XII secolo di San Lussorio di Fordongianus, stata identificata come la depositio del martire Luxurius: appare chiaro che dovettero esservi flussi di pellegrinaggio verso la tomba del martire, collegati probabilmente ad una eventuale sosta ristoratrice presso le antiche sorgenti termominerali delle Aquae Ypsitanae, dove era fiorito in età classica il santuario delle Ninfe salutari e di Esculapio (ELSard. B 130).

 

 

12. – I medici in età paleocristiana

 

La prospettiva si modifica parzialmente proprio per la tarda antichità cristiana; resta a far da sottofondo il motivo non banale della condanna della venalità del medico e il disinteresse che egli deve mostrare nei confronti del compenso straordinario, soprattutto quando la sua opera venga prestata nei confronti di tenuiores e al contempo si assiste alla nascita di un servizio sanitario pubblico per Roma, istituito da Valentiniano I (a. 368) e alla creazione nella città del primo ospedale, patrocinato da Fabiola, nobildonna convertitasi al cristianesimo (a. 380). Come dire che almeno per Roma, pubblico e privato creano una sinergia di elementi in grado di concorrere ad una modernizzazione della struttura sanitaria e al diritto alla cura per i ceti economicamente più deboli. Mela Albana fa rivivere questo processo di trasformazione: Valentiniano I si conferma come l'imperatore dell'innovazione, articolando l'organizzazione sanitaria di Roma attraverso l'assunzione di 14 archiatri, tante quante erano le regiones urbane, che si andarono ad aggiungere ai tre specialisti già preposti alla zona del Portus (per gli impiegati del porto), allo stabilimento di Xystus (per gli atleti) e alle Vestali, per un totale di 17 specialisti, la cui attività doveva essere improntata a principi di soccorso in favore dei tenuiores, gli indigenti. La costituzione (CTh, 13, 3, 8) con cui si istituiva il nuovo servizio sanitario risulta chiarissima in questo senso: Archiatri honeste obsequi tenuioribus malint quam turpiter servire divitibus. Viene richiamata la responsabilità del medico che in quanto fruitore di compensi imperiali deve essere al servizio della collettività e in particolare delle fasce meno agiate senza pretendere da privati alcuna retribuzione. Scrive infatti l'autrice: La legge di Valentiniano sembra espressione di una morale squisitamente laica fondata su una solida base giuridica vale a dire sul principio che alla percezione di una retribuzione deve corrispondere la prestazione di un servizio stabilito.

In realtà a ben guardare, secondo Gaetano Arena (Il potere di guarire L'attività medica fra politica e cultura nella Tarda Antichità), i precedenti del programma di Valentiniano I sono da ricercarsi nell'azione politica, tenacemente perseguita da Giuliano. Dobbiamo mettere a confronto la figura di due archiatri originari della Pisidia, distanti cronologicamente e in parte culturalmente, L. Gellius Maximus, archiatra di Caracalla e probabilmente insegnante o ricercatore presso il Museo di Alessandria e C. Calpurnius Collega Macedo, retore, filosofo, archiatra (fedele?) nella teoria e nella pratica ai precetti di Ippocrate nell'età di Giuliano. I due archiatri vengono presi quasi a simbolo di un cambiamento ideologico: Gellio Massimo, ancora legato alla sola visione utilitaristica della professione medica, pare considerarla come uno strumento di ascesa sociale per se per il proprio figlio, si pone quasi come nume tutelare di un paziente privilegiato come l'imperatore e dei suoi parenti stretti. D'altro canto Collega Macedo, forte di una formazione che aveva privilegiato non soltanto il sapere medico ma anche la retorica e la filosofia, probabilmente di orientamento neoplatonico, sembra incarnare lo spirito della politica di Giuliano: l'archiatra si pone come filantropo, privilegia l'aspetto umanitario, dedicandosi indistintamente alla cura di quanti abbiano bisogno del suo sapere e della sua tecnica. Del resto, Giuliano vuole individuare nella medicina una terza via culturale, alternativa sia alla sofistica pagana, sia alla santità cristiana : in lui la tradizione medica classica vista in discontinuità col cristianesimo, diviene strumento culturale di uno scontro di mentalità. Una proposta perdente che rivelerebbe la fragilità del programma di Giuliano.

Anche Teodorico ed Atalarico, re dei Goti tra la fine del V e la prima metà del VI secolo, si impegnano a varare una riforma della politica sanitaria a beneficio dei sudditi, conferendo visibilità e prestigio ai medici, esaltando l’ars medica, favorendo il risanamento ambientale attraverso bonifiche delle aree paludose e valorizzando le terapie naturali (terme, passeggiate al sole, clima montano), le erbe ed alcuni alimenti come il latte. Lucietta di Paola (Naturalis siquidem cura est aegris dare laetitiam: medici malattie, cure naturali e terapie mediche nella testimonianza di alcuni autori tardo-antichi) analizza un gruppo di Variae e delle Institutiones di Cassiodoro, il testo epigrafico CIL X 6950, alcune lettere di Ennodio, indirizzate al medico Elpidio e alcuni passi della sua Vita Epiphanii e dell’Eucharisticum de vita sua, l'epistolario di Avito per seguire il percorso teorico attraverso il quale tali autori ridefiniscono la figura del medico in rapporto alla sua professionalità e al suo ruolo nel sociale. L'intento è quello di far emergere negli scritti di questi autori gli elementi, rimasti sino ad ora in ombra, riferibili alla medicina del tempo e ai suoi operatori. Particolarmente interessante si rivela la Varia cassiodorea (6,19) relativa alla formula comitis archiatrorum, che ben definisce il modello di medico che Cassiodoro ha in mente: il medico deve essere tenuto ad un forte senso di responsabilità nei confronti del paziente perché peccare in hominis salutem rappresenta un crimen homicidii. Secondo Marina Usala (Deontologia medica in Cassiodoro) proprio nella formula comitis archiatrorum sarebbero ravvisabili elementi di una medicina pubblica reinterpretata in chiave cristiana; Cassiodoro avrebbe avviato un processo di rimodulazione deontologica alla professione medica alla luce della morale cristiana.

 

 

13. – Cachet di oculisti, colliri, pomate, balsami, e altri prodotti curativi

 

Gli oculisti utilizzavano dei vasi per conservare i loro colliri, preparati secondo ricette conosciute ampiamente nei trattati medici: ci restano i tappi con forma prismatica in pietra, larghi qualche centimetro, che portano delle scritte su uno o più lati, per ricordare il contenuto del vaso. Un primo inventario in particolare dei signacula medicum oculariorum è stato proposto dal Dessau in ILS 8734-872, con molti tipi di colliri, come quello mixtum adatto per ogni sorta di malattia tranne le infiammazioni oculari, secondo la ricetta di Q. Albius Vitalio in Gallia, che riprende il collyrium che Celso chiamava memgménon; oppure quello melinum acre ad pulver(em) et caligine, analogo a quello fatto col miele e studiato da Galeno; o i remedia contra initia glaucomatum et suffusionum noti già a Plinio il vecchio, realizzati con erbe (ILS 8734). Tre cachet di oculista trovati a Porolissum in Dacia AE 1982 837 ricordano tre differenti colliri realizzati dal medico Publio Cornelio Colono: chelidonium opobalsam(atum), un balsamo realizzato con succo di celidonia ad caligines, per combattere la cecità, prodotto effettivamente usato secondo Plinio per curare le infiammazioni agli occhi (anche a Vertillum Lingonum, col citato medico Q. Albius Vitalio, ILS 8734 e a Metz per Q. Valerius Sextus, ILS 8742); un secondo collirio credo realizzato con l'aceto studiato per trattare la secchezza della pupilla, dioxus ad aspri(tudines) et genas callos(as) e un terzo collirio era un vero e proprio balsamo che affrontava i primi sintomi di una cataratta, diaspor(sicum) opobalsam(atum) ad clari(tatem), ove la claritas è ovviamente la vista perfetta. Ad Apulum in Dacia il medico T. Attius Divixtus usava un prodotto specifico orientale contro le infiammazioni agli occhi, diazmyrnes post imp(etum) lip(pitudinis) e altri prodotti su ricetta asiatica o libanese (ILS 8736; prodotti analoghi venivano offerti ai pazienti ad Este in Italia, ILS 8738).

In Britannia conosciamo i contenitori di Biggleswade (CIL XIII, 10021,186 = RIB-2-4, 2446,2), con i nomi dei medici e dei rimedi (pomate, balsami, colliri, prodotti colorati), da loro studiati per combattere reumatismi, l’oscuramento della vista, l’oftalmia causata forse dal tracoma o da altre infiammazioni agli occhi (lippitudo) oppure in positivo per garantire una vista più acuta o più genericamente per curare mali diversi e sovrapposti: Il medico C(aius) Val(erius) Amandum proponeva un dioxum ad reumatic(a) oppure uno stactum ad cal(iginem). Il suo collega C(aius) Val(erius) Valentnus  un diaglauc(ium) post imp(etum) lip(pitudinis) oppure un  mixtum ad cl(aritatem), un diox(um), stac(tum), diaglauc(ium), mixt(um).

In Germania Superiore conosciamo una serie di documenti relativi a preparati suggeriti dai medici per curare le più diverse malattie: così nel municipio di Arae Flaviae il medico Honestus Latinus per guarire acidità, vecchie cicatrici, tracoma e piaghe suppurate, partendo dall’insegnamento di Dioscoride (AE 1917/18, 86): dialepid(os) ad aspritudine(s), diamisus ad veter(es) cicatri(ces), dial(i)banum ad impet(um) lippit(udinis), diagesam(ias) ad suppurat(iones) (per le s(uppurationes) vd. anche l’amimetum prodotto da C. Titius Balbinus in Arvernia, ILS 8740; per le cicatrices e le aspritudines, vd. anche l’euodes di L. Valerius Latinus in Britanna, ILS 874,dove si cita anche un apalocrocodes ad diatesi), a Seppois le Haut da parte del medico di origine orientale Euelpistus (CAG-68, p 284 = EDCS-54600025), a Mogontiacum da parte del medico Q. Carminius Quintilianus: dialep(idos) crocodes ad asprit(udinem), penicille ad omne(m) lipp(itudinem) ex ov(o) (CIL XIII 10021,32). A Epamanduodurum da parte del medico C. Claudius Immunis : diapsor(icum) opo(balsamatum) ad claritat(es), penicil/le ad impet(um) lippit(udinis) ex ovo, coeno[n] ad aspr(itudines) et claritates , diasmyrnes post imp(etum) lipp(itudinis) ex ovo (CIL XIII 10021, 44 = ILS 8737, vd. 8736) oppure da parte del medico M. Urbicus Sanctus: amethyst(inum) delac(rimatorium) del(enitorim?), melin(um) delacr(imatorium), per lippit(udo), aspritudo e cic{h}atr(ices) (CIL XIII, 10021,202). A Cesseys sur Tille per C. Claudius Prinus e C. Iulius Libycus: terentianu(m) croc(odes) ad asprit(udines) et cic(atrices); diasmyrnes post impet(um) lippitud(inis), turinum [ad] suppurat(iones) oculor(um), diacholes ad suppur(ationes) et vete(res) cicatr(ices) (CIL XIII 10021,50). A Bavai tra i Nervi il medico L. Antonius Epitetus preparava un dialepidos ad diathehesis, un collirio calmante, soprattutto un diamisyos ad c(icatrices), un collirio adatto per Marcello empirico ad eliminare le irritazioni oculari e a ridurre la lacrimazione (ILS 8735; analoghi prodotti in ILS 8739, Voucluse). Simili preparati sono quelli del medico M. Lupius Merca a Cenabum in Lugdunensis (AE 2005, 1044), di L. Pompeius Nigrinus ad Alluy (CIL XIII 10021, 153): (h)arpas/ton ad recent(em) lippitu/dine(m) od(i)ent(em) die(m) ex ovo; fo{o}s ad lipp(itudinem) ex ovo. Per passare alla Belgica, si possono richiamare i prodotti di M. Claudius Martinus e M. Filonianus a Durocortorum (CIL XIII 10021, 46) e di Q. Iun(ius) Taurus a Nasium (CIL XIII 10021, 114): isochrys(um) ad scabrit(ias) et clar(itatem) op(obalsamatum); diasmyrn(es) post impet(um) lippit(udinis). Ancora in Belgica, vd. il medico C. Manucius Iunius a Divodorum : diar(hodon) ad l(ippitudinem), col(lyrium) ad clar(itatem) anodyn(um), on(guentum) aur(eum) ad o(culos) (CIL XIII 10021, 132). Tra i Remi, vd. M. Valerius Sedulus (CILXIII 10021, 190): penicille ad omne(m) lipp(itudinem) ex ovo, diasmyrn(es) post imp(etum) lip(pitudinis) ex o(vo), euodes ad asprit(udines) et cica(trices) vet(eres), diamisus croco(des) ad aspr(itudines) ve(teres). A Rugles conosciamo un collyrium fos post impet(um), un diapsoricum delacrimator(ium), un Dicentetum post impetum, un Dielaeum len(e) ad siccam lipp(itudinem), con l’istruzione: redu<p>licare ex sputo in ang(u)lo / f<o>ntan(a)e (CIL XIII 10021,211).Vd. anche CIL XIII 10021,55 e 71 (località incerta). Insomma, i medici arrivavano a praticare la professione dopo aver acquisito conoscenze e competenze che erano simili in tutto l’impero romano.

 

 

14. – La bioetica

 

Ciò che colpisce è l'estrema attualità di alcuni temi legati già in epoca antica e tardo-antica al dibattito sul valore etico che deve improntare la ricerca e sul freno da porre ad una sperimentazione che travalichi allora come oggi gli ideali di humanitas. Gli attuali dibattiti sulla bioetica e anche le inquietanti notizie sui traffici di organi e la sperimentazione criminale su minori in difficoltà sembrano avere una singolare corrispondenza in alcune pratiche di vivisezione, realizzate nell'Egitto tolemaico, con finalità scientifiche, dai medici Erofilo, Erasistrato e Eudemo e nella dissezione dei cadaveri di bambini esposti cui fa riferimento Galeno nei Procedimenti anatomici. Il profondo articolo di Gabriele Marasco su Le conoscenze anatomiche nella ricerca e nell'insegnamento sotto l'impero romano conduce nel cuore della contrapposizione tra medicina dogmatica ed empirica, con la prima apertamente schierata a favore dell'utilità della vivisezione dal momento che la morte di pochi criminali avrebbe potuto salvare molti innocenti e la seconda recisamente contraria in nome degli ideali di humanitas e che condannava la crudeltà del medico inutilmente assassino, insistendo sul destino crudele delle povere vittime. Il legame con l'attualità diventa ancor più perspicuo se si riflette sulle radici della conoscenze scientifiche in campo medico-anatomico, laddove Galeno afferma l'utilità del ricorso alla dissezione del corpo della scimmia per via della sua somiglianza all'uomo: quasi si tratti di un'intuizione antesignana dell'evoluzionismo; e per converso pare andarsi affermando, già in antico, una qualche forma di sensibilità sociale nei confronti della dissezione e vivisezione su animali che porta lo stesso Galeno a richiedere l'assenso preventivo degli spettatori ad esperimenti pubblici in tal senso. Un recente caso di cronaca, avvenuto a Pavia tre anni fa, che forse alcuni di voi ricorderanno, dove una donna si sottopose a fecondazione assistita dando alla luce due gemellini dal cui cordone ombelicale furono tratte cellule staminali che dovevano servire a salvare la vita del bimbo più grande, affetto da talassemia, richiama poi alcune suggestioni di fondo presenti nel caso proposto da una declamazione latina dello Pseudo Quinto, cui fa riferimento Marasco, nella quale si pone la fattispecie di due gemellini ammalati, uno dei quali viene sacrificato dal medico, dietro il consenso paterno, per poterne esaminare gli organi interni al fine di salvare l'altro. La ricerca e la sperimentazione nel campo della medicina giustificano da una parte l'utilizzo della tecnica al fine di creare artificialmente vite che servano, almeno nelle intenzioni, allo scopo di salvarne altre e dall'altra possono alleviare l'istintivo orrore di una vita soppressa in favore di un'altra? Naturalmente non ho una risposta a questi quesiti.

Il dato di fatto che emerge quello di un filo rosso che lega culturalmente il passato e il presente delle società occidentali in rapporto alla riflessione etica e bioetica in materia di ricerca, di sperimentazione, di progressi, in taluni casi, più o meno avventuristici della medicina. Nel tardo-antico dell'Occidente accanto al filone della medicina ufficiale, del sapere medico che poggia le sue basi nell'elaborazione scientifica, etica, filosofica della medicina di epoca classica nel solco del quale si inseriscono i medici e gli archiatri formatisi presso scuole di medicina e su testi di solido impianto scientifico, perdura quello della medicina popolare, dei remedia empirici, della magia e dell'irrazionale.

 

 

15. – Medicina, religione e magia

 

Accanto alla figura del malato si affianca in maniera imprescindibile, non solo quella del medico, ma anche del mago e poi, in ambito cristiano, dell'esorcista e del santo taumaturgo, scrive Sergio Giannobile (Malanni fisici e malanni spirituali nelle iscrizioni magiche tardoantiche) che porge alla nostra attenzione un quadro assai esaustivo di iscrizioni magiche su supporti di vario tipo (laminette in oro, argento, bronzo, o metalli più vili come il piombo, gemme, filatteri) per contrastare patologie come il mal di testa, l'infiammazione della gola, le coliche, la podagra come pure per compiere esorcismi in grado di scacciare le entità demoniache.

Del resto lo stesso Liber de medicamentiis di Marcello Empirico del principio del V secolo, come ben sottolinea Daniela Motta (Ab agrestibus et plebeis remedia: terapie mediche e riti magici in Marcello Empirico) si muove sul crinale tra medicina ufficiale e medicina popolare: i fortuita atque simplicia remedia ricavati ab agrestibus et plebeis, i rimedi dei pauperes e dei rustici hanno validità dal punto di vista scientifico, secondo Empirico, in quanto testati dalla sperimentazione.

Anche il contributo di Lia Marino (Patologie tra etica e politica in Ammiano Marcellino) credo che in parte restituisca la sensazione di questa convivenza del piano del razionale e dell'irrazionale: Ammiano scrive la Marino vuole riscattare il ruolo del medico sulla base di suggestioni culturali di antica risalenza. L'autrice altresì sottolinea con efficacia che nella deriva che logorava i puntelli ideologici su cui poggiava l'impero, sembra far capolino un sottile gioco di sponda tra l'esigenza di conferire dignità all'esercizio della medicina e l'affidamento a pratiche popolari e all’illicita divinatio seguita anche da alcuni imperatori, come Giuliano esperto di vaticini.

 

 

16. – Le cause di morte nelle iscrizioni

 

Adda Gunnella (La mort au quotidien dans le monde romain, a cura di F. Hinard) ha studiato le iscrizioni che illustrano le cause dei decessi, distinguendo le morti accidentali (annegamenti, cadute, incidenti di lavoro ecc.) e morti avvenute per mano altrui come omicidi o uccisioni di civili in rapporto a disordini, guerre, assalti di ladroni; a questa seconda categoria, che definiremo di “male morti”, di morti brutali, appartenevano anche le morti attribuite ad avvelenamenti o più in generale a sortilegi e opere di magia e addirittura le morti avvenute durante i parti, che in qualche modo minacciavano la continuità di una famiglia o di un gruppo sociale.

Tra le morti più drammatiche, non solo per la sorte delle vittime, ma anche per l'impatto sui vivi, vi sono quelle attribuite ai sortilegi, alla magia e al veleno, che richiedevano competenze ben documentate in età imperiale in Sardegna: un veneficium vero o presunto era punito già in età repubblicana dalla lex Cornelia de sicariis et veneficiis, che colpiva la fabbricazione, la somministrazione e la vendita di sostanze venefiche.

In questo quadro molte iscrizioni contengono accuse contro i medici, del resto già formulate nelle opere di Plauto, Petronio o Marziale.

L'infausto risultato di terapie, ritenute fatali per la sorte del paziente, viene menzionato in numerosi epitafi nei quali, accanto alle consuete parole di cordoglio dei familiari, vengono formulate gravi accuse nei confronti dei medici, indicati apertamente come responsabili del decesso dell'amato.

Così un liberto imperiale P. Aelius Peculiaris non esita a denunciare le colpe dei medici per la scomparsa improvvisa – mors subita – a poco più di 27 anni, dell'amato alumnus Euhelpistus, quem medici secarunt et occiderunti (CIL VI 373367 = ILS 9441).

In un carmen urbano il defunto vuole far conoscere al passante l'infausto esito di un intervento chirurgico, che gli ha causato la morte (CIL VI 30112): semanimis iacui, medici male membra secarunt corpori.

Ucciso da un medico, precisus a medico, tmethìs upò iatrou è il bimbo cristiano ricordato in un testo bilingue da Nicomedia fatto incidere dal padre afflitto (CIL III 14188).

Per culpa curantium è deceduta a soli 28 anni l'amata moglie, mentre il marito era assente dalla Pannonia (CIL III 3355).

Ephesia Rufria è ricordata dal marito a Roma per esser deceduta a causa dell'ignoranza dei medici: “morì per una febbre maligna che le provocarono i medici e oltrepassò le loro previsioni”, se anche non si trattò di un fatto criminale, perché la febbre non fu curata forse dolosamente: qu[ae mala periit febri], quam medici praeter e[xpectatum adduxerant] (CIL VI 25580).

L'ignoranza dei medici è evidente a tutti anche perché sono i primi che non riescono a porre rimedio alle loro stesse malattie: così Alexander morto per una ferita al ginocchio, volnus genoris (CIL VI 9604), o come l'africano Marcellus bruciato dalla febbre, valida febre crematus (CIL VIII 11347). Oppure C. Plinius Valerianus medicus, morto a 22 anni, ricordato dai genitori a Como (ILS 7787).

Del resto i medici sono in grado di blandire, di consolare, non di curare davvero: offrono solamen e animi consolatio, non medicine efficaci: Medici illum perdiderunt, immo magis malus fatus; medicus enim nihil aliud est quam animi consolatio, secondo Petronio 42.

Il giudizio negativo sulla professione medica è esteso, ma non generalizzato. Eutyches, un auriga di Tarragona in Spagna riflette serenamente sulla propria sorte, sentendo arrivare la morte a 22 anni di età: le sue viscere sono state bruciate da un morbo nascosto, contro il quale nulla hanno potuto i medici di buona volontà: ussere artentes intus mea viscera morbi, vincere quos medicae non potuere manus (CIL II 4314).

 

 

17. – Il parto

 

Il parto era un momento molto pericoloso per le donne nell'antichità e per i loro figli, perché avveniva spesso in condizioni igieniche precarie e senza l'adeguata assistenza ad esempio per nascite premature, parti podalici, setticemie puerperali. Un'epigrafe di età imperiale rinvenuta in Croazia CIL III 2267 ricorda così il dramma vissuto da una giovane schiava dalmata, Candida morta a 30 anni: <<Ella soffrì crudelmente per quattro giorni nel tentativo di partorire, ma non partorì e così lasciò la vita. Quae est cruciata ut pariret diebus IIII et non peperit et ista vita functa. La ricorda Giusto, il suo compagno di vita e schiavo assieme a lei>>.

Plinio il giovane ci riferisce delle due sorelle Helvidiae, appartenenti a una gens senatoria, morte entrambe di parto alla fine del I secolo d.C. Dopo aver messo al mondo una bambina viva e sana ciascuna. Tutto questo era conseguenza del fatto che se i medici avevano a disposizione ben pochi mezzi e medicinali inefficaci, per cui potevano tutt'al più alleviare il dolore ma non estirpare il male, ancor meno potevano farlo le pure numerose ostetriche o mammane alle quali le donne romane ricorrevano anche per gli aborti procurati, altra frequentissima causa di morte.

 

 

18. – Iconografia

 

Su un sarcofago ritrovato a Pompei è scolpita una donna che posa una benda su uno scheletro appoggiato a terra: secondo Laura Montanini la benda o la corona mortuaria erano un omaggio al defunto che, in quanto tale, aveva partecipato e vinto l'agone della vita e insieme un invito a prender parte al banchetto funebre che si svolgeva presso la tomba: la Nike alata simbolo della vittoria si ritrova spesso rappresentata su stele o tumuli in n atto di offrire queste insegne a uomini o donne.

 

 

19. – Prospettive della ricerca

 

Credo ci si possa limitare a questa esemplificazione: ho fornito solo pochi esempi di un repertorio quanto mai vasto e articolato. Il mondo antico ci parla ancora oggi e noi ci proponiamo di rileggere le parole incise sulle pietre con l'obiettivo di ritrovare una storia che ancora ci appartiene nel profondo.